DALLA REALTÀ ALL'ETERE, LA VIOLENZA CONTRO LE DONNE CONTINUA A MIETERE VITTIME

È un crescendo di aggressività e paura quello che sta segnando il nostro Paese. Donne uccise in nome dell’amore. Ma malato e ossessionato, se di amore può mai trattarsi. Spontanea la riflessione sul ruolo e la responsabilità della tv nel veicolare violenza e femminilità stereotipata.
violenza contro le donne

Eleonora non c’è più. È stata freddata con tre colpi di pistola. Anna Maria è morta. Uccisa a pugni in faccia. Anche Chiara se ne è andata, massacrata a sprangate. Roberta è stata trucidata con ripetute coltellate. Non è la trama di un romanzo criminale, ma solo una piccola parte di una serie di omicidi che hanno lasciato nell’ultimo periodo una scia di sangue lungo tutto il nostro Paese: da Mestre ad Ostia, da Bari a Spinea, in provincia di Venezia; e ancora da Novara a Crema, da Bergamo a Foggia. Per arrivare anche a Loreto, nelle Marche. Vittime, sempre le donne.

 

Una carneficina che in tutti i casi prende le mosse da un “amore mancato”, non conforme al desiderio covato dalla mente dell’assassino: l’aguzzino, infatti, è quasi sempre un marito, un ex fidanzato o un conoscente che si vede negata una relazione al pari delle proprie aspettative con la donna che desidera. Si parla di “delitti passionali”, proprio perché la ragione alla loro base è riconducibile ad un rapporto amoroso, finito o solo anelato, comunque non corrisposto. Ma non ci può essere niente di amorevole o anche solo vagamente sentimentale in un gesto tanto crudele da portare alla distruzione della persona “amata”, quando non anche di se stessi. Non è raro, infatti, che dopo aver eliminato la propria vittima il carnefice si tolga la vita.

 

È chiaro che oltre alla forma deviata di “amore”, così come concepita nella mente dell’assassino, c’è qualcosa d’altro che nutre il movente di questi delitti. Un fattore trasversale, capace di trasformare in assassini uomini appartenenti a qualsiasi ambito sociale e culturale. Michela Marzano, filosofa e docente alla Sorbona di Parigi, sottolinea come la paura dell’uomo di perdere, anche in minima parte, il proprio potere, nel momento in cui la donna cerca di affermarsi in modo a lui paritario in termini di dignità, valore e diritti, lo renda volgare, aggressivo, violento. Gli artefici dei delitti “passionali” sono, come spiega Marzano, uomini talvolta insicuri, con poca fiducia in se stessi, che, invece di tentare di capire cosa non funzioni nella propria vita, puntano il dito contro le donne, facendole capri espiatori dei propri fallimenti. E così trasformano la vita delle loro prede in un incubo: le cercano, le minacciano, le picchiano, a volte le uccidono.[1]

 

L’ultimo rapporto Eures-Ansa, “L’omicidio volontario in Italia”, parla di un significativo incremento di omicidi di donne nell’ultimo decennio: le donne uccise sono passate dal 15,3% del totale nel periodo 1992-1994 al 23,8% del biennio 2007-2008. Ad incidere maggiormente su questo trend di crescita è stato il progressivo aumento dei delitti in famiglia (dove le principali vittime sono donne). Dai dati del rapporto emerge anche che le donne più colpite sono le anziane (24,5% del totale), con numerosi omicidi di coppia o “pietatis causa”, ma il rischio è forte anche nell’età feconda, in cui le donne sono uccise prevalentemente all’interno di rapporti di coppia, per ragioni passionali: il 21,8% delle vittime di sesso femminile ha infatti tra i 25 e i 34 anni.

 

In questi giorni, più che mai, non mancano purtroppo esempi di come la degenerazione mentale rompa in maniera definitiva il fragile equilibrio psicologico di uomini ossessionati, trasformandoli in spietati esecutori. Quasi giornalmente trovano spazio all’interno dei telegiornali notizie di cronaca che parlano di donne, a volte poco più che ragazzine, travolte, abusate, violentate e uccise. Al di là dell’informazione, tutta la programmazione televisiva oggi sembra veicolare sempre più spesso episodi di violenza. Ma non si può parlare solo di violenza nei media; è necessario mettere l’accento anche sulla violenza dei media, cioè sulle specifiche forme che la ratio televisiva conferisce alla violenza, la peculiare costruzione di senso che la televisione realizza. Tale costruzione, infatti, tende molte volte a fornire una precisa lettura del fenomeno della violenza, ad esempio drammatizzandone alcuni aspetti (con la scelta delle inquadrature, dei primi piani, ecc.) od occultandone altri [2]. Sono in molti oggi a ritenere che la televisione stia sempre più proponendo immagini di una violenza disimpegnata, spettacolare, desemantizzata e presentata in modo aproblematico [3].

 

Sembra dunque legittimo poter parlare di ruolo e responsabilità della televisione. E a conferma di ciò c’è un corposo numero di indagini, svolte nell’arco di circa mezzo secolo e condotte con differenti metodologie, che hanno cercato di analizzare se e quanto la violenza rappresentata sullo schermo possa influenzare, soprattutto in età infantile o adolescenziale, il comportamento e lo sviluppo sociale, approfondendo il discorso sul rischio di incentivazione di comportamenti violenti e aggressivi [4]. I risultati di queste ricerche hanno evidenziato diversi effetti negativi riconducibili all’assistere a spettacoli violenti in tv, fra cui i principali sono:

-          aumentata accettazione della violenza come mezzo appropriato per la risoluzione dei conflitti;

-          desensibilizzazione ai danni-sofferenze delle vittime della violenza;

-          aumento della propensione al comportamento aggressivo;

-        degradazione della rappresentazione della realtà sociale (come minacciosa, pericolosa, in cui la violenza è continuamente presente) [5].

In ogni modo, quando si considerano i possibili effetti della violenza vista in tv, bisogna prendere in considerazione l’eventuale interazione di altre variabili, come ad esempio le condizioni ecologico-sociali, diverse per circostanze e soggetto. Ciò significa che si deve oltrepassare la concezione lineare di causa-effetto e che il problema delle conseguenze della fruizione di violenza in tv va inserito in una prospettiva più ampia e complessa.

 

Nei casi di violenza e di omicidi contro le donne, è facile immaginare che queste, nella mente dell’aguzzino, non siano considerate nel rispetto di ciò che sono, ovvero persone, con la propria vita e con la facoltà di autodeterminarsi; piuttosto, la donna è trattata alla stregua di un oggetto, quello del desiderio, quindi da possedere e da farne ciò che si vuole. Ed anche in quest’ottica, quella cioè della donna-oggetto, va richiamata la responsabilità dei media, specie della televisione. I modelli femminili veicolati oggi dal piccolo schermo, infatti, si inseriscono in una sorta di schema-cliché, dove a primeggiare sono pochi, deprimenti e offensivi stereotipi, che associano la donna alla frivolezza dell’estetica, alla bellezza del corpo, all’incapacità di esprimere pensieri sensati, alla volontà di apparire piuttosto che di essere.

 

Nel grave scenario di violenza, che si sta delineando sotto i nostri occhi quasi quotidianamente, rientra purtroppo anche una tragedia consumatasi nella nostra regione, le Marche, solo qualche giorno fa. In un pomeriggio d’estate, a Loreto, città mariana per eccellenza, la follia assassina ha preso per mano un uomo qualunque e lo ha portato a sparare ripetuti colpi di pistola contro la sua ex fidanzata, la madre e la sorella di lei. Una vendetta ad ampio raggio per una relazione finita e che non sarebbe tornata. Vincenza è ancora in vita, ma Rita e Silvana non ci sono più. Ancora vittime. Ancora donne. Più in generale, i dati relativi alla violenza consumata sulle donne nelle Marche non sono per niente confortanti. Basti pensare che se in Italia la percentuale di donne che hanno subito violenze sessuali è del 23,7%, nelle Marche questo valore sale a 25,2%. La percentuale nazionale di quelle che hanno subito violenze fisiche è pari al 18,8%, quella marchigiana del 20,1%. E i dati sulle donne che sono state vittime di stupri o di tentati stupri pongono le Marche in linea con l’Italia: il dato nazionale si attesta infatti al 4,8% e quello regionale al 4,7%.

 

Un’onda di soprusi che fa ancor più paura se si pensa che la quasi totalità delle violenze non viene denunciata. Un’indagine dell’Istat del 2008 ha evidenziato che le violenze domestiche, realizzate da un partner, non vengono denunciate dalle donne nel 93% dei casi, soglia che raggiunge il 96% nel caso di violenze perpetrate fuori dalla famiglia, da un non partner. Un silenzio che non si esclude possa essere l’anticamera di conseguenze più gravi, non ultimo un omicidio. Chiara appare dunque l’importanza di abbattere il  muro di “omertà” intorno a questo crescendo di aggressività, tanto pericoloso quanto difficile da frenare. E il cambiamento deve partire dal piano culturale, facendo leva su un approccio alla donna orientato al rispetto e smantellando con criticità le immagini e i modelli femminili veicolati dalla tv e, più in generale, dai mezzi di comunicazione.

 

 


[1] Cfr. Perché gli uomini uccidono le donne, articolo di Michela Marzano pubblicato su La Repubblica il 14 luglio 2010.

[2] Cfr. Violenza televisiva e minori di Sandro Montanari, pubblicato sul sito web dell’Aiart, Associazione Spettatori onlus (www.aiart.org) il 7 maggio 2007. Cfr. a questo proposito anche La violenza televisiva. Logiche, forme, effetti di Guido Gili, ed. Carocci, Roma 2006.

[3] Cfr. L’immagine assolta di Diana Salzano in Violenza e società mediatica a cura di Agata Piromallo Gambardella, ed. Carocci, Roma 2004.

[4] Cfr. Gli effetti della violenza sullo schermo in età di sviluppo, di Simona Martini, pubblicato sul sito web www.psicologi-italia.it il 13 aprile 2008.

[5] Cfr. La televisione e la violenza, di Adriano Pagnin in La comunicazione nei processi sociali e organizzativi, a cura di A. Quadrio, L. Venini, ed. Franco Angeli, Milano 1997.